Storie di montagna

Boomerang: “La via è la meta”

di Marco Furlani


Quale l’intuito, quale la genialità, quale l’acume il colpo d’occhio di certi alpinisti, pensavo quel mattino della vigilia di Natale del 1978 mentre semi addormentato a bordo della solita corriera scendevo verso Arco.
Come sempre ero partito presto troppo presto per i miei gusti: “Visto che non sono mai stato brillante nelle alzate mattutine” da casa a Povo giù di corsa alla stazione a Trento con lo zaino sulle spalle.
Il programma era stimolante, la prima ripetizio- ne del bellissimo ed elegante Pilastro Gabrielli via aperta dall’amico Giuliano “Ciano” Stenghel. Era una mattina grigia fredda e sulle grandi pareti del Sarca, sopra una certa quota una leg- gera spolverata di neve, niente a che vedere con le radiose giornate della valle, proprio mentre pensavo a tutto questo una fugace visione sulla grande placconata del monte Brento catturò la mia attenzione.
La possibilità di superare le placche del Brento allora per uno scalatore sembravano lontane come la luna per i primi astronauti, lisce come uno specchio, levigate come un marmo una cosa che sembrava impossibile. 
Impossibile, una parola che allora risuonava molto spesso, l’uomo aveva davanti ancora l’immensità dove potersi perdere mentalmente in progetti che forse potevano diventare sogni e che, se si era fortunati si trasformavano in realtà. Spesso ne avevamo parlato con i compagni della mia generazione, uscivamo allora dall’era del grande alpinismo eroico, Bonatti, ed il mio mito Maestri avevano da poco lasciato la scena, i dogmi classici stavano per cadere per lasciare posto a che cosa?
Mezzo addormentato stavo pensando a questo quando mi risvegliai dal torpore in cui mi ero calato nella comodità della poltrona, lassù sulla placconata impossibile una leggera spolverata di neve lasciava trasparire un’effimera linea di salita, una leggera sottile quasi invisibile ed effimera increspatura era messa in evidenza da quella rara spolveratina di neve, ecco l’intuito, forse se si ferma la neve posso aggrapparmi anch’io mi dissi, stando ben attento a non tradire la mia emozione verso il mio compagno, il giovanissimo diciassettenne Roberto Bassi.
All’altezza dell’abitato di Ceniga scendemmo dalla corriera e ci avviammo verso Laghel in direzione del pilastro dei nostri sogni, faceva un freddo boia il tempo era brutto nevischiava ma l’investimento fatto nel biglietto della corriera non ci permetteva di ritornare senza aver provato. Senza relazione attaccammo senza remora alcu- na, con audacia oserei dire una certa ferocia e salimmo quella che allora secondo me era la via più difficile del tempo nella val del Sarca, lungo un diedro dove c’erano diversi grossi cunei di legno uno ebbe la cattiva idea di uscire ed io mi ritrovai a volare a testa in giù verso il mio compagno. Robertino mi guardò spaventato, mentre io in- cazzato come una bestia risalii a braccia le corde concludendo la lunghezza e tiro dopo tiro uno più bello dell’altro arrivammo in vetta mentre si metteva a nevicare con più convinzione.
Felice? Si molto, alla felicita si può dare molte facce quell’anno, e nel ’78 per me significava più di cento scalate meglio di così non si poteva sperare ma… l’uomo non è mai felice del tutto. Quella leggera increspatura messa in evidenza dalla neve, aveva tenuto occupata la mia mente, il ’78 uno degli anni più sconvolgenti nella storia del dopoguerra del nostro paese stava per finire e ci avviavamo verso il ’79, forse l’anno della placca impossibile.
Quell’anno, il ’78, al corso primaverile della Graffer si erano iscritti diversi giovani forti e motivati le nuove promesse, c’era il Riccardo Mazzalai, il Fabio Stedile, l’Alessandro Cordin ed il Roberto Bassi io li tenevo sotto controllo ed alla fine del corso entrai in sintonia con Riccardo e Roberto ed andammo ad arrampicare insieme. Il ’79 era partito con un grande progetto andare ad arrampicare in California, gli allenamenti dovevano essere all’altezza del progetto, alle- namento fisico ed allenamento mentale così la placca del Brento poteva essere l’uno e l’altro. Arrampicare in California era una cosa estrema quasi impossibile per noi, la placca impossibile poteva essere il banco di prova.
Ed ancora quale l’intuito quale il colpo di genio. La mia squadra, il mio team, il farne parte era il massimo, potevamo progettare, eravamo 4 che si chiudevano a pugno, che si fondevano in un solo ariete di sfondamento.
Erano scalatori formidabili, forti motivati, eccezionali e con loro progettammo la grande placca. All’inizio della primavera facemmo timidamente un assaggio, ma sbagliammo tutto: non date retta a quelli che vi raccontano che loro in parete non sbagliano mai, essi vi raccontano un sacco di balle, sbagliano o come se sbagliano.
I miei compagni erano demoralizzati specialmente i più giovani, ma Valentino ed io no, sapevamo che ogni grande sconfitta si poteva convertire, interpretare come un piccolo passo verso una grande vittoria.
Rifacemmo il piano di battaglia, organizzammo tutto in ogni piccolo particolare, scegliemmo e costruimmo la maggior parte del materiale ci allenammo come bestie, adattammo persino le scarpette, costruimmo chiodi ad espansione (che non usammo) più lunghi ed infine attaccammo caparbi.
Era una bella mattina di maggio, l’aria era pulita e tersa, l’azzurro del cielo era perfetto e mentre stracarichi di materiale salivamo verso l’attacco le pieghe della roccia si potevano leggere come un bel libro. 
Dopo la sconfitta precedente avevamo individuato l’attacco in prossimità del vertice sinistro di un enorme tetto a forma di Boomerang in direttiva di uno strapiombo a forma di orecchio. Non voglio perdermi in una sterile relazione descrivendovi tutti i passaggi caratteristici, l’o- recchio, la traversata sotto il Boomerang, dove provai a piantare un chiodo a pressione, ma fatto il foro la roccia si sgretolò ed il chiodo uscì, così vinsi le placche del traverso gettando il cuore oltre l’ostacolo, il grande traverso superiore che porta al verticale e grigio testone finale questa è la via, l’opera che è rimasta là scolpita, per chi è venuto dopo.
Ma quello che rimane a 30 anni di distanza sono ricordi di grande amicizia che ci legavano allora come adesso, quell’essere in quattro ma una sola cordata, ricordo con nostalgia gli incitamenti che venivano dal basso quando ero impegnato in un difficile tratto.
Compagni stupendi meravigliosi ed eccezionali, certo gran parte del merito di questa unione di questa compagine era dovuta al grande Valen- tino Chini, il leggendario”Vale”, più vecchio di noi, lo avevamo soprannominato il “Saggio la Chioccia”. Ha allevato tre generazioni di alpinisti trentini sempre nel silenzio, sempre attento che tutto funzionasse con capillare perfezione.
Riccardo Mazzalai(Tequila) forte come una quercia, astuto come la volpe, agile ed ardito come pochi, Mauro Degasperi (Alcide) silenzioso e caparbio, acuto arrampicatore, intelligente, appassionato, forte.
Io auguro a tutti di avere la fortuna di poter arrampicare con compagni così.
Questa è e rimane la vera felicità.
Inizialmente decidemmo di chiamare la via “Nuova generazione” ma poi prevalse il nome “Boomerang” per il caratteristico grande tetto centrale.


Seguono due pezzi scritti da amici che hanno ripetuto la via, uno di importanza eccezionale: il figlio di Mauro Degasperi che ha voluto ripetere la via nel trentesimo anniversario, aperta dal padre.

Via del boomerang, monte Brento, 4 ottobre 2009
Degasperi Luca, Pacher Matteo, Tavernini Michele, Ropele Valerio, Chianese Massimiliano
Da quando ho iniziato ad appassionarmi alla montagna, ogni volta che passavamo di fronte a quella parete, stressavo mio padre chiedendogli: “È lì vero che sale il boomerang?”.
Questa via, simbolo dell’arrampicata classica in val del Sarca, ha sempre fatto parte dei miei sogni (anche per via di una questione di famiglia) e aver avuto la possibilità di scalarla assieme ai miei amici, è stata una vera fortuna.
Quella mattina, in macchina, c’era un’aria tesa, nessuno di noi cinque sapeva cosa ci aspetta- va. Eravamo cinque amici, tutti con la stessa passione per l’arrampicata, tutti classe 1991 e stavamo andando a fare quello che ci piaceva di più, arrampicare.
Era tutta l’estate che se ne parlava, sarebbe stata la salita dell’anno! Eravamo armati fino ai denti, tre relazioni, chiodi, martello e tutto il necessa- rio. Non eravamo abituati all’idea di aver sopra di noi quasi 1000 metri di roccia, noi che eravamo abituati alle vie sportive della val del Sarca, a veder conficcati nella roccia gli spit e a trovar sempre le soste a prova di bomba. Qualche uscita in montagna l’avevamo fatta, ma nessuno aveva esperienza su vie di questa lunghezza. Infatti non ci spaventava più di tanto la difficoltà, a spaventarci era l’idea che in confronto alle altre vie a cui eravamo abituati, questa era lunga il doppio, inoltre le storie sulla pericolosità degli ultimi tiri non ci rassicuravano affatto.
Però quella mattina eravamo lì, puntualissimi, ore sei partenza dal parcheggio “Zuffo”. Eravamo molto tesi, nessuno parlava, se non ricordo male ascoltammo i Led Zeppelin, tanto per metterci la carica giusta. Quando arrivammo al parcheggio delle placche stava albeggiando, ci addentrammo nella vegetazione per poi lasciarla per i ghiaioni dai quali sorgono le pareti del monte Brento. “Attaccare la parete perpendicolarmente ad un tetto fatto a forma d’orecchio…” recitava la relazione. Così facemmo. Prese il via l’avventura che aspettavamo da tutta l’estate.
Per sconfiggere la tensione si rideva e si scherzava e pian piano, con l’alzarsi del sole, un nuovo sentimento prese il sopravvento, eravamo felici. Ci stavamo divertendo.
Salimmo in fretta, spaventati a morte dall’idea di dover affrontare quegli ultimi famosi tiri, dai quali tutti, in primis mio padre, ci avevano messo in guardia: “non avete esperienza!”, “è facilissimo perdersi lassù!”, “non siete mica sul san Paolo, no l’è che se sucede qualcos tré zo na dopia!!!”. Ormai facevo finta di non sentire, però dentro di me lo sapevo benissimo e avevo paura. In un attimo raggiungemmo il grande tetto a forma di boomerang in centro alla parete, lo superammo attraverso quelle splendide plac- conate esposte, fino ad arrivare ai tiri semplici che portano al boschetto, il quale si trova a due terzi della via. Superammo anche quello fino a trovarci all’inizio dell’ultima sezione, dove ci permettemmo una piccola pausa, era ancora presto ed il tempo splendido.
Fissai assieme ai miei compagni quelle placche erbose che portavano all’ultimo traverso oltre il quale c’erano ancora solo due, tre lunghezze per uscire.
Partii. Ovviamente sbagliai. Tutto d’un colpo mi tornarono in mente le frasi e i consigli che mi aveva dato mio padre fino alla sera prima, ri- guardo a quelle poche, ma pericolose, lunghezze. In un attimo mi trovai in mezzo a boschetti sospesi, roccia marcia e non c’era neanche l’ombra di un chiodo. Comunque ormai il danno era stato fatto, eravamo troppo sopra il bosco per poter tornare e provare un’altra strada. Scorsi una cen- getta erbosa, non più larga di 15 cm, che correva lungo una placconata verticale, completamente liscia, in direzione di quella che avrebbe dovuto essere la paretina verticale sotto la quale avrebbe dovuto esserci il tiro che portava ai canali d’uscita. Mi rincuorai quando dopo due tiri attraverso queste cengette a picco sulla grande placconata del Brento, trovai un chiodo (non siamo stati gli unici!) che ci permise di calare cinque, sei metri, fino a raggiungere l’albero sul quale si trova la sosta del terz’ultimo tiro. In quel momento tirai
un forte sospiro di sollievo e quando fummo tutti e cinque ancorati a quell’albero, in sicurezza, mi scaricai di tutta la tensione accumulata nei quattro tiri precedenti.
Quest’esperienza, ci ha insegnato molte cose, prima di tutto: “Mejo scoltar i veci” (“veci” nel senso alpinisticamente esperti), in secondo luogo, quanto sia facile andar a mettere il culo nelle pedate senza neanche rendersene conto. Quindi, vorrei che questa nostra esperienza, faccia capire soprattutto alle nuove generazioni, che come noi stanno percorrendo i primi passi sul lungo e complesso sentiero dell’alpinismo, quanto sia pericoloso questo sport se non lo si affronta utilizzando la testa e non si impara ad essere umili nei confronti della montagna.
Per fortuna si è concluso tutto nel migliore dei modi. In un attimo siamo usciti sul canale erboso per poi seguire il sentiero che porta alla strada che scende a valle, lungo la quale ci hanno raggiunto dei nostri amici in macchina e ci hanno risparmiato la discesa a piedi.
Mi fa sempre molta impressione pensare al fatto che ho potuto percorrere, assieme ai miei amici, la via che esattamente trent’anni fa venne aperta da Marco Furlani, Valentino Chini, Riccardo Mazzalai e Mauro Degasperi, i quali scrissero un importante pagina dell’alpinismo in Valle, ma soprattutto tra questi quattro, c’è colui che per fortuna è riuscito a contagiarmi con questo virus benigno che è la passione per la montagna e mi ha regalato la possibilità di vivere assieme ai miei amici emozioni bellissime.
Grazie papà.


Con Giuliano Giovannini ci conosciamo da più di trent’anni, fratello maggiore di Giorgio, mio grande compagno in durissime ascensioni estive ed invernali di ampio respiro, purtroppo perito durante la discesa con gli sci dalla parete nord di cima Vermiglio in Presanella. Con Giuliano abbiamo salito il Boomerang in un momento difficile della sua vita, lascio a lui raccontarvi com’è andata.

Marco: I referti dicono che è d’obbligo l’intervento chirurgico.
Questo avverrà fra qualche giorno.
…Ma come?... me lo dici così….adesso. Lo sapevi anche prima.
Perché non dici mai nulla! Teston! Ma sì… dai, non è grave.
Prima di dire volevo sapere, non prendertela, non volevo tenerti fuori dalle mie cose.
Dai lo sai, sono fatto così, che ci vuoi fare.
Bhe! Allora: “Nem a far el Boomerang. Così se te mori, te mori content.”
Queste le parole di un amico.
Al mattino presto andiamo in macchina su per la strada che da Arco porta a San Giovanni. Lasciata l’auto scendiamo a piedi alla base della parete.
Arrivati lì, da sotto arrivano due giovanotti, con la pila frontale ancora fissata al casco, benché sia fatto giorno da un bel po’.
Ci prepariamo per la salita, le solite cose, l’imbrago, i rinvii, le scarpette…
Ci salutiamo, scambiamo qualche parola…. “Siete qui per il Boomerang?” chiedono loro. Marco mi guarda ed allora faccio un segno di assenso con la testa.
Marco li invita a partire per primi.
Sai, loro giovani e atletici, noi così come siamo, insomma...
Dicono: “No, no, andate voi. Conoscete la via?” “Mah”, dice Marco, “so chi l’ha aperta, era gente tosta!”
Primo tiro di corda. Sosta. Secondo tiro. Sosta. “Hei dove andate?” Chiede Marco ai due che hanno preso un’altra direzione.
“Sembra più facile di qui”, si giustificano.
“Non è stato aperto a spit il Boomerang, sempre che vogliate fare il Boomerang.”
Si riportano sulla via e adesso siamo assieme. Mi guardano i piedi e chiedono: “Perché gli scarponi e non le scarpette da arrampicata?” “Le ho dimenticate”, mento.
Tiro dopo tiro saliamo e ci conosciamo meglio. Loro vengono da Como.
Si accorgono che sembro trovare appigli anche dove loro non ne trovano, in realtà le mie dita non sono lunghe come le loro.
Dopo metà parete c’è un punto critico dove è facile perdere la via.
Marco da sopra mi grida “Daghe un ocio valà che se no i se perde!” E mi cala un po’. In effetti hanno saltato la sosta. Li avviso, il primo torna indietro e con sollievo sento i moschettoni chiudersi sui tre chiodi che compongono la sosta. Un po’ più su uno dei comaschi mi dice che erano partiti con l’intenzione di effettuare la salita anche a costo di bivaccare e che avevano sentito dire che era successo a più di una cordata. Gli dico che se continuiamo così per le 14, circa, saremo fuori.
“Ma allora l’avete già salita questa via!”
“Io no” - gli rispondo - “Ma il mio primo di cordata è Marco Furlani, l’apritore!”
In cima abbiamo aspettato un po’, ma visto che non arrivavano siamo andati alla macchina e poi a casa a mangiare e bere un buon bicchiere di vino frizzante... come la gioia che in quei momenti hai nel cuore dopo aver salito una grande via.
Un’avventura su una grande parete, la corda che ti lega all’amico.

 
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