UN POMERIGGIO con Armando Aste

Io e Fausto, l’amico e il compagno
UN POMERIGGIO con Armando Aste:
“Susatti fu un memorabile secondo di cordata ”
di Francesco Rubino (con Flavio Moro e Luigi Sansoni)

Pubblicato: ANNUARIO 2016  della SEZIONE DI RIVA CAI-SAT

Siamo in un fresco pomeriggio di marzo a tre giorni dalla domenica di Pasqua. Per arrivare al secondo piano dell’appartamento di Armando Aste attraversiamo quattro rampe di scale con appese alle pareti un susseguirsi di incredibili scatti di montagne, il Brenta, il Civetta, la pale di San Martino e così via. Su un tavolino sono esposti esemplari delle più disparate rocce: dalla dolomia al granito e qualche minerale. Aspettiamo Armando che sta tornando dai suoi impegni pomeridiani. Appena ci presentiamo penso che l’incontro con Aste sia un po’ come una montagna da scalare, non ovviamente per la tempra del suo carattere, una persona squisita e gioviale, né per la difficoltà ad incontrarlo, disponibile da subito. È una montagna per il bagaglio della sua esperienza, della sua vita spesa con generosità e slancio. Appesantito dagli anni e affannato per gli acciacchi dell’età ti chiedi se non sarebbe meglio star con lui il meno possibile e lasciarlo tranquillo, ma come si addice a un vero primo di cordata rompe lui il ghiaccio e ti mette subito a tuo agio. E allora gli spieghiamo la doppia ragione della nostra visita. In occasione del novantesimo anniversario della SAT di Riva del Garda vorremmo con lui ricostruire l’immagine di un altro grande uomo e alpinista, Fausto Susatti suo grande amico e suo primo forte “secondo di cordata”. Ma gli esprimiamo anche, come ragazzetti, la contentezza di poterlo incontrare e farci raccontare direttamente le imprese più significative, i suoi pensieri e riflessioni sull’alpinismo e sulla sua evoluzione, ed è stato ben contento che noi fossimo li per lui. In quanto primo, Armando, comincia a parlare di Fausto.



A: Aveva una grande visione e capacità, sapeva guardare sempre in grande. Io avevo bisogno di lui perché per me la cordata è un tutt’uno; era un secondo di cordata formidabile.
I: Però quando Fausto voleva andare solo, tu cosa gli dicevi?
A: ‘Nar solo? no non era el so mister. Ricordo sul Campanil Basso, ha ciapà un pestao, il piede che gli tremava, io ero più giovane di lui ma sono sempre andato su tranquillo. Sono tutte piccole cose che ti fanno capire, che hanno un significato.
I: Però quando Marino Stenico è venuto a sapere che volevi fare la solitaria alle Tre Cime ti ha incoraggiato
A: Ah si è venuto ad accompagnarmi!
I: Si quello l’ho visto, ma ti ha dato anche coraggio
A: Si, Madonna mia, però io ero in uno stato di grazia allora, non mi rendevo conto, adesso mi dico che sono stato matto
I: Andiamo per ordine: Fausto come l’hai conosciuto?
A: Eravamo a far la via Videsott in Cima Margherita in Brenta, Fausto era insieme al Fambri di Riva, io ero con due amici di Trento; su in cima ci siamo presentati e gli ho chiesto se voleva venire ad arrampicare con me. E da lì abbiamo cominciato a ripetere tutte le vie più belle del Brenta di allora e dopo abbiamo cominciato a fare le vie più difficili delle dolomiti: in Marmolada, Tofana, e tutte quelle vie lì che andavano per la maggiore. Dopo siamo andati a fare la via di Bonatti sul Grand Capucin, che allora sembrava aver fatto chissà quale gran cosa, era sicuramente un gran bella via. Noi siamo stati i primi dolomitisti dopo gli scoiattoli di Cortina, siamo andati via con l’attrezzatura delle dolomiti, roba di tela, non avevamo né fornelletti né altro. Siamo andati su con una “boccia de do’ litri de sgnapa”, e abbiamo sbagliato perché la grappa è un vasodilatatore e fa venire il sangue in superficie e causa dispersione di calore… Abbiamo fatto quella salita mentre in valle ci hanno dato per dispersi quella volta, siamo stati quattro giorni, siamo stati bloccati da una bufera, e poi invece siamo tornati… e a Ivrea abbiamo preso una bottiglia di barbera e sono rimasti tutti contenti!
I: Cosa ci puoi raccontare un po’ del carattere di Fausto?
A: Era una bella tempra, ha fatto pugilato, credo sia stato campione del Triveneto nei pesi Gallo. Una volta, ricordo, tornati dal Brenta, siamo andati a San Lorenzo in Banale (ci racconterà dopo che da Rovereto ci arrivavano in bicicletta all’attacco del sentiero) a bere qualcosa e c’era uno che infastidiva la compagnia, Fausto gli ha detto “guarda, non farmi perdere la pazienza…” era un buono ma aveva carattere. Quando era per il verso giusto era anche un burlone, davvero un ottimo compagno.
I: Tu lo sapevi prendere per il verso giusto allora
A: No guarda, io sono stato sempre un “uomo di chiesa”, un credente e Fausto non lo era tanto, ma sapeva che ci tenevo che fosse un bravo ragazzo, uno in gamba. Una volta, andavamo a far una via dura, lui mi disse ”Guarda Armando che non sono nato nell’uovo io” e io “Bravo!”era il suo modo di dirmi che era a posto, era pronto… Ah ce ne sarebbero di aneddoti da raccontare su Fausto. Dopo, chi ha messo zizzania e in qualche modo ha contribuito alla rottura della nostra cordata sono stati un po’ i suoi amici di una volta. Gli dicevano mettendo in risalto “Armando ha fatto questo, Aste ha fatto quest’altro, ma com’è possibile che non ti nominano mai!” e tanto hanno detto che alla fine abbiamo rotto la cordata
I: Ma perché ti sei arrabbiato?
A: Nooo, io non sono arrabbiato; pensa, una volta, siccome lui era sempre secondo, mentre eravamo all’attacco della via Detassis in Brenta Alta gli ho detto “dai va’ avanti tu” e lui “no, no vai avanti tu” disse, non se la sentiva, non era il suo…
I: Anche perché una volta si andava sempre a primi di cordata alterni?
A: No, io ho sempre fatto il primo di cordata, non abbiamo mai fatto in alternato. Anche perché sono due attività distinte, un bravo capo cordata non è capace di fare un “bel” secondo e un valido secondo non è buono di fare da primo. Per esempio la cordata Aiazzi - Oggioni. Oggioni, il primo di cordata era quello che andava su sempre, in ogni situazione, ma Aiazzi era la mente per così dire, era quello che guardava da basso la via, gli dava indicazioni. Ed era sempre così, erano due diverse competenze, però era una cordata inscindibile, fortissima.
I: Ma dopo l’alpinismo si è sviluppato con l’alternanza dei primi
A: io quella roba lì non la capisco… Io non sarei mai andato, per esempio con Cesare Maestri, eravamo antagonisti allora, non abbiamo mai arrampicato assieme; io non avrei fatto mai da secondo a lui e altrettanto Cesare non sarebbe mai stato disposto a farmi da secondo. Col senno di poi direi che per uno stupido orgoglio non abbiamo mai fatto cordata. Ma ci siamo sempre rispettati a vicenda, e ancora adesso siamo grandi amici, sono uno dei pochi che ancora oggi, in tarda età, quando si sono spenti i riflettori, gli è restato amico.


 
I: Per chiudere con Fausto: ma avete litigato?
A: No, semplicemente abbiamo sciolto la cordata e non ci siamo più visti. Ero andato a Riva a chiedergli se voleva fare il pilone del Freney, e lui mi ha risposto che non sarebbe venuto. Abbiamo bevuto una birra assieme, abbiamo mangiato quella carne piccantissima che ora non mi viene in mente il nome, perdo colpi ormai… era una carne molto piccante e si beveva dietro la birra.
I: E poi vi siete persi di vista a un certo punto
A: Si più o meno, lui dopo è andato col Biasin di Verona, ma ha sempre fatto il secondo, e una volta lui gli aveva detto “arrampichi come l’Armando”. Biasin era uno degli arrampicatori più forti di Verona assieme a Milo Navasa. Poi Fausto è morto nel mezzo del 59 e io ho continuato ad arrampicare fino all’80.
I: qual è stata l’ultima via fatta assieme?
A: Non mi ricordo. Poi lui ha cominciato ad andare con gli altri, ed è stato lì che ci ha lasciato la pelle. Non voglio dire… ma se fosse stato con me non gli sarebbe mai accaduto nulla, perché io per fortuna non ho mai avuto incidenti, né io né i miei compagni di cordata, mai. Perché io ho sempre cercato prudenza, la pelle, la vita, vale più di tutte le montagne del mondo.
I: Per Fausto è stato un incidente sulla Figlia della Cima Canali
A: Si, si è attaccato a un blocco e gli è venuto addosso, 40 metri, sul primo tiro. Non gli aveva lasciato nessun segno. Un volo 1. (si fa più cupo). Ricordo ancora la disperazione della sua mamma, povera donna. (Tace).
I: La montagna ne ha fatte tante vittime
A: Non è questo. Lui era uno che cercava le risposte ai suoi problemi e lo faceva attraverso la montagna, arrampicando, per lui non era soltanto un’ambizione, proprio aveva bisogno di esprimersi, cercava risposte. (anche qui Armando fa un lungo denso silenzio)
I: Penso che dopo questa vicenda si sia sciolto il gruppo rocciatori di Riva
A: Si, ma anche il nostro, il gruppo rocciatori Ezio Polo, si è sciolto. Son venuti dentro i giovani, che vedevano solo gli orari, la velocità, e si è sciolto. Siamo sempre rimasti amici tra noi vecchi, ma con i giovani non ha mai attaccato. Noi eravamo abituati a rispettare i personaggi che ci avevano preceduti. Io quando vedevo Cassin, Soldà, Carlesso, mi tremavano le gambe accidenti, loro erano i mostri sacri per noi; i giovani non avevano lo stesso rispetto per noi, volevano tutto e subito.
A proposito di mostri sacri e di giovani, Flavio gli dice che anche noi avremmo voluto conoscere prima Armando… Armando ribadisce un concetto a lui caro, lo si trova anche nei suoi libri, nelle altre sue interviste e conferenze, dice che siamo tutti uomini e ognuno di noi è irripetibile, che è cosa sciocca avere complessi di inferiorità, ognuno col suo carisma, ognuno col suo modo di fare e coi suoi pensieri…
I: Voi avete inaugurato un nuovo modo di andare in montagna, siete stati però una cerniera tra l’alpinismo di una volta e quello moderno
A: Si, siamo stati un anello di congiunzione è vero, però le esperienze vanno inquadrate nel loro tempo e comunque dopo di noi ci sono state altre generazioni di bravi alpinisti che si sono ispirati al nostro modo di fare ma sono andati avanti.
I: Torniamo un po’ ad Armando Aste. Qual è la via solitaria che ti è rimasta maggiormente impressa?
A: La Via dei Francesi alla Cima Ovest di Lavaredo. Ho un filmato di quella, ho delle riprese fatte da un giornalista del CAI nei primi tiri di quella via.
I: Cosa ti ha lasciato quella via?
A: È stato un passo avanti, un’evasione in una dimensione superiore. I primi seicento metri sono tutti strapiombanti, se butti giù una corda dall’ultimo strapiombo casca 70 metri in fuori dalla parete, una roba pazzesca.
I: E in quanto tempo l’hai fatta?
A: In quattro giorni, sono stato su quattro giorni. Quelle vie li sono dispendiose sia fisicamente che mentalmente, allora io arrampicavo per circa otto ore e poi mi fermavo.
I: A cosa pensavi in quei momenti?
A: Ah, ero in uno stato di grazia, mi pareva di volare, ed ero convinto che il mio angelo custode mi sostenesse, mi è capitato di pregare tanto. La mattina al risveglio e la sera. Ricordo una notte ho bivaccato all’attacco dell’ennesimo strapiombo e mi chiedevo “come farò domani” poi ci ripensavo e mi dicevo “bah ci penserò domani…” e ricordo che i miei amici, Marino Stenico e gli altri mi aspettavano in fondo, di notte mi strilavano “Armando! Come va?” e io “Ma porca miseria dormivo, mi avete svegliato!”. Ero proprio sereno, non mi pareva di fare chissà cosa. Dopo, come ho già detto, pensandoci su sono stato proprio un pazzo… ma dopo però…
I: Cosa rifaresti o non rifaresti della tua esperienza alpinistica?
A: Ah, sicuro non rifarei la via dei Francesi, basta una volta! (Ride di gusto e noi con lui). E poi farei qualche via nuova ancora, o proverei ad aprire una via come quella che poi ha preso il nome di Philipp - Flamm alla punta Tissi, ero andato per farla io, poi abbiamo preso un temporale al Coldai e mentre ero lì che me la guardavo sono scivolato da un sasso per qualche metro e mi è venuto un grosso ematoma così ho dovuto rinunciare; quando ci sono tornato l’anno dopo, andando in su, mi sono accorto che già c’era stato qualcun altro, c’erano chiodi e spezzoni di corda: nel frattempo l’avevano aperta per l’appunto i due austriaci ma io non lo sapevo… Allora sono tornato indietro, perché in quel momento non mi interessava fare una ripetizione; per me le vie lunghe sono l’opera d’arte dell’alpinista, l’alpinismo non è uno sport è un’arte, soprattutto l’arte di scalare sé stessi attraverso la montagna per fare un passo in avanti.
I: Su questo punto c’era una perfetta sintonia con Susatti o sbaglio?
A: Eh si per forza, perché se non sei sulla stessa lunghezza d’onda non vai da nessuna parte. Io non mi attaccherei mai col primo che capita. La prima cosa da fare è conoscere l’uomo, perché è sull’uomo che si “innesta” l’alpinista, l’impiegato, l’operaio… Ci sono anche grandi alpinisti ma piccoli uomini e piccoli alpinisti che sono stati grandi uomini.
I: Cosa hai pensato quando è arrivata la notizia della fine di Susatti?
A: Io lavoravo in fabbrica, ed ero li quando l’ho saputo. Mi sono disperato, sai anche se non andavamo più assieme io gli volevo bene come fosse mio fratello. Pensa che ancora ora lo ricordo tutti i giorni nelle mie preghiere, perché l’amicizia va oltre il tempo e oltre lo spazio, la vera amicizia intendo; per me è stato un grande amico prima di tutto, e ho ammirato le sue doti umane, l’ho stimato ancor prima come uomo e poi anche come alpinista. (Un lungo silenzio avvolge di nuovo Armando).
Poi torniamo a discutere dell’alpinismo moderno e ci dice:
A: L’alpinismo è figlio del suo tempo, così come la storia umana va avanti allo stesso modo va avanti l’alpinismo. Prima c’erano vie reputate difficili che ora si fanno in poche ore (l’Eiger stesso ora lo scalano in circa 2 ore e 50 minuti), e ancora c’erano settori che nessuno mai avrebbe pensato di affrontare sui quali invece oggi si va tranquillamente su, questa è l’evoluzione dell’alpinismo.
I: Ma come si fa entrare in quello stato di grazia che ti permette di andare su?
A: Mah, non saprei dirlo, forse ero più probabilmente un incosciente, eravamo giovani e poi avevamo una preparazione atletica fenomenale. Io facevo ginnastica ancora a scuola elementare. Io facevo le funi parallele con le sole mani e le gambe a squadra, e poi andando avanti col tempo ho sempre fatto 100 sollevamenti con le braccia e 300 piegamenti sulle gambe. Ne facevo tanta di ginnastica. Anche quando ero in fabbrica, mi attaccavo ad una scaletta e mi tiravo e segnavo col gesso quante ne facevo, non facevo mai salite di allenamento. Lavoravo in manifattura tabacchi e bruciavo quintali di carbone al giorno in caldaia, impalavo il carbone con la destra e la sinistra per fare allenamento. (Ma quando andavo in montagna andavo e basta… ndr).
I: E poi quando hai detto basta?
A: Quando si è ammalato mio fratello, era più importante aiutare lui che arrampicare. Era più bello dare che ricevere. E la malattia è durata 23 anni. Quel giorno che ho saputo della sua malattia ho detto basta. Non potevo lasciare a casa mio fratello e andare. I miei puntavano su di me, ero il più vecchio dei fratelli. Io ero solo. Mi sono sposato a 50 anni. Perché ero il solo che a quel tempo lavorava e poteva sostenere la famiglia; mi dicevo che se faccio una famiglia per conto mio è difficile sostenere anche loro, i miei, perché dovevo pensare a me stesso, ma loro avevano bisogno di me... Ma è stato anche un bene, perché quella libertà che avevo mi ha permesso di andare.
I: Qual è stata l’ultima via che hai fatto?
A: Sono tornato in Patagonia, pensa che avevo lasciato il materiale a casa di Cesarino Fava perché ero convinto di tornare ancora una volta l’anno successivo, poi si è ammalato mio fratello e basta così.



E si va avanti con un bicchiere di rosso sul tavolo a raccontare aneddoti, su Oggioni, su quel “ furbo” (a detta di Armando) di Aiazzi che caricava di chiodi lo zaino di Oggioni, sul rapporto tra il limite e la prudenza sul quale ci sarebbe da dire ancora tanto, sul fatto che la tranquillità e la capacità di capire quando fermarsi sono le vie maestre ma anche le più difficili da imboccare. Su quanto sia stata importante l’esperienza alpinistica per crescere personalmente e umanamente, perché “era quello che io potevo fare, e mi ha dato la misura di cosa ero in grado di fare”.
E ancora abbiamo parlato di come l’alpinismo abbia espanso i propri confini coinvolgendo tutte le montagne della terra per quello spirito di esplorazione che ha sempre contraddistinto l’uomo, spingendo sempre più in là il limite. Mentre parliamo dell’Eiger gli telefona Franco Solina (suo compagno di cordata sulla prima ascensione italiana all’Eiger) per fargli gli auguri di Pasqua (siamo a qualche giorno dalla festa).
A rimarcare quanto l’amicizia vada oltre tutto e in questi casi sia più solida della roccia che ha scalato. E ancora scopriamo, come di solito accade dopo oltre due ore di chiacchierata, che abbiamo diverse conoscenze e amicizie comuni, così come quando tornato una volta in Patagonia incontra per caso una coppia italiana arrivata lì grazie al libro di Aste consigliato da un amico comune.
E scoprire che il mondo è davvero piccolo. Forse questo è il motivo che ci spinge sempre più in alto a recuperare una boccata d’aria pura… per recuperare un po’ se’ stessi in armonia con il cosmo.
Aste volge ormai verso al suo novantunesimo compleanno, ridendo ci dice che non ha né fretta né paura di andare ma nel frattempo non ha smesso di scalare montagne, ha continuato a farlo con le sue amicizie e con la sua mente, scrivendo libri per lasciare una traccia, di una vita vissuta intensamente e in modo autentico. L’importante è arrivare sereni al “capolinea”. Ci fermeremmo ancora a chiacchierare con Armando, ma abbiamo davvero approfittato della sua gentilezza, ormai è ora di cena e Armando ha bisogno di riposare.
Una sola parola per racchiudere l’essenza di questo pomeriggio: gratitudine.
Grazie Armando, e alla prossima!


Preghiera della sera

Signore, vorrei essere morto.
L'ansia di sapere
se per me c'è un posto
nel Tuo cuore mi consuma.
Mi è rimasto ancora un tizzone,
forse un moncone di tizzone,
ma devo soffiare
continuamente fino a stordirmi
per tenerlo acceso
sotto la cenere.
Quando
bruciato e nudo,
busserò alla Tua porta
spero che un poco del Tuo Amore
mi rimanga impigliato
nelle mani

Armando Aste
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